Formazione
Bush non avrà le nostre coscienze. Lappello di Hollywood.
Appello contro la guerra di intellettuali e artisti che invita i cittadini americani «a reagire alle politiche e alle restrizioni dei diritti post 11 settembre» e promette «parole e azioni di solidari
«Che non si dica che negli Stati Uniti la gente non ha fatto niente quando il suo governo ha dichiarato una guerra senza limiti e ha istituito nuovi mezzi di repressione». Comincia così un appello contro la guerra di intellettuali e artisti nordamericani diffuso via Internet, che invita i cittadini americani «a reagire alle politiche e alle restrizioni dei diritti emerse dopo l’11 settembre» e promette da qui in avanti «parole e azioni di solidarietà» con chi ne sta facendo le spese in tutto il mondo. Richiamandosi esplicitamente ai riservisti israeliani che si sono rifiutati di prestare servizio a Gaza e nei territori occupati, nonché «ai numerosi esempi di resistenza e coscienza che offre la storia degli Stati uniti», dalla lotta degli abolizionisti alla disobbedienza contro la guerra in Vietnam, i firmatari invocano pratiche di resistenza individuali e collettive contro la «strategia mortale» imposta da Bush e, come primo gesto simbolico di sottrazione, tolgono rappresentatività alla parola del presidente: «Noi neghiamo che egli possa parlare a nome di tutti i nordamericani. Non consegniamo le nostre coscienze in cambio di una vana promessa di sicurezza». Ovviamente, recita il testo, «anche noi abbiamo osservato con angoscia i terribili fatti dell’11/9, abbiamo pianto le migliaia di vittime innocenti e ci siamo domandati, come migliaia di statunitensi, come sia stato possibile tutto questo». In questione non è il dolore o il giudizio sull’attentato, ma il deterioramento della sfera pubblica americana dopo l’attentato, in forza del binomio «guerra fuori e repressione dentro» su cui la risposta al terrorismo è stata impostata. Fuori, prima l’attacco all’Afghanistan con le sue ripercussioni in Medioriente, adesso la minaccia di una «guerra totale» in Iraq, «un paese che non ha nessuna relazione con i tragici attentati dell’11 settembre». Dentro, la rottura del principio di uguaglianza dei diritti, dello stato di diritto e della divisione dei poteri: la strategia della «indefinite detention» sperimentata sui prigionieri di Guantanamo, che fa strame dei diritti alla difesa e a un equo processo; l’applicazione diseguale delle regole sull’immigrazione; la sottomissione dei tribunali militari all’esecutivo; l’ampliamento dei poteri di investigazione e sequestro della polizia. E il diritto alla libertà d’espressione calpestato: «Il portavoce del presidente ha intimidito la gente dicendo `Attenzione a come parlate’, e la visione dei fatti espressa dagli artisti e dagli intellettuali è stata distorta, attaccata o eliminata». Ma non è detto che tutti gli americani siano disposti a sacrificare le libertà fondamentali sull’altare della sicurezza, ed è su questo che i firmatari dell’appello fanno leva. Firmano nomi noti del mondo universitario, dell’industria culturale e del mondo dei media. Intellettuali d’opposizione del calibro di Noam Chomsky e Edward Said, artisti come Laurie Anderson, il rapper Mos Def, l’hip-hop Boots Riley. Attori come Ossie Davis, volto noto dei film di Spike Lee, e Edward Asner, protagonista di una popolare serie televisiva. Scrittrici e scrittori come Adrienne Rich (voce del femminismo della differenza Usa), Alice Walker (l’autrice de Il colore viola), Grace Paley, Russel Banks, William Blum, John Gillis, Suoir Hammad. Esponenti della galassia femminista come Gloria Steinem e Carol Downer. Editori come Rutgers Jeremy Matthew Glick e Rabbi Michael Lerner (editore della rivista radical Tikkun). Storici come Saul Williams, Howard Zinn, Rosalyn Baxandall. E drammaturgi, sceneggiatori, produttori di cinema, avvocati, giuristi.
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